«La maestra e i cattivi partigiani» Il paese-teatro recita la sua storia

di Fabrizio Ravelli

VELO VERONESE – C’è il Paese della tv deficiente, ma poi per fortuna c’è anche un paese come questo. Un paesino, settecento abitanti a mille metri di quota nella meraviglia di pascoli e boschi dei Monti Lessini. Un paese, diceva quello, vuol dire non essere soli. Qui a Velo, ormai da quattordici anni, vuol dire andarsi a cercare la proria storia, chiederla in prestito alla memoria dei vecchi, metterla in scena, riviverla da capo. Recitare se stessi, tagliare e cucire il passato per poterselo infilare addosso, ritrovare parole sperse del dialetto, pronunciarle forte perché sentano tutti, anche quelli delle file giù in fondo. Battersi le mani alla fine, quelli sopra e quelli sotto il palco. Ritrovarsi l’indomani per strada, nei negozi e per i campi, ricordarsi qualcos’altro da aggiungere la prossima volta.
Qualcosa più del teatro. «Non è una compagnia teatrale, è un paese che mette in scena se stesso. E reinventa anche il proprio modo di vivere». Alessandro Anderloni compie oggi 32 anni, sembra un ragazzo ed è il motore di questa vicenda. Aveva quattordici anni quando tutto è cominciato: un giornale aveva scritto che, in base a non si sa quale statistica, risultava che Velo era il paese più depresso di tutta la provincia di Verona. «C’erano da raccogliere soldi per una missione in Cameroun. Montammo uno spettacolo in cui ribaltavamo la statistica: i giornalisti salivano a Velo, trovavano famiglie festanti, locali affollati, servizi eccellenti, una sola vacca dava 9 milioni di latte al giorno». Era il 1986. Si divertirono parecchio.
Hanno continuato. Prima un coro, messo su dal prete, diretto dalla mamma di Alessandro, e poi da lui. Il coro divenne un gruppo teatrale. Qualcosa del genere s’è sempre fatto, in montagna. «C’erano i filò, cioè le serate d’inverno nelle stalle a raccontarsi storie. C’era la gente che recitava a memoria interi canti della Divina Commedia». Alessandro intanto si è laureato in Lettere con una tesi di storia contemporanea sulla vita di don Alberto Benedetti, un prete della Lessinia fatto a modo suo: libertario, anticonformista, controcorrente. Il gusto per il teatro contagia il paese, aggira i rischi del pittoresco, prende la strada della Storia. Anderloni (regista, scrittore, musicista, impresario, eccetera) comincia a intervistare i suoi compaesani più vecchi, a mettere insieme materiale sulla storia di Velo.
Che cosa ricordano di assolutamente memorabile? Ricordano tutti quando, nel 1950, passò da Velo la Madonna Pellegrina. Ne esce il primo spettacolo, che è del 1993: La Madona l'à portà la luce. E poi quello sulle fiabe recitato dai bambini, 1996: Sera i oci, te conto ’na storia..., chiudi gli occhi che ti racconto una storia. Nel ’99 I colori dell’arcovergine sulla figura di un pittore di madonne. Nel 2000 La cattolica e l’ardito ambientato nel 1939: fascio e acqua santa in paese. Fino all’ultimo, replicato l’altra sera nella sala parrocchiale strapiena: Gli esulanti dell'8 settembre, l’anno e mezzo della guerra partigiana visto da un paesino della Lessinia, quaranta persone in scena.
Questa faccenda del teatro è l’esperienza intorno a cui ha girato per tutti questi anni la vita del paese. Circa 300 dei 700 abitanti hanno collaborato in varie maniere. Hanno cucito costumi, costruito mobili di scena, trovato suppellettili d’epoca, imparato canzoni, recitato, ballato, cucinato, stampato manifesti, raccolto testimonianze, provato e riprovato nella sala senza riscaldamento. Un lavoro che occupa tutto l’inverno: «Ho scoperto – dice Anderloni – quanto la mia gente trovi un sano orgoglio nel mettere in scena i fatti del suo passato». Nessuno aveva esperienza teatrale. «Ho visto, anno dopo anno, come tutto questo influisce sui rapporti fra le persone, dentro la comunità, come quelli che non riuscivano a parlare si appassionano». 
Il risultato è assolutamente non professionale, ma strepitoso per quanto è coinvolgente. Recitano operai, commercianti, insegnanti, pensionati, bambini, muratori, contadini, allevatori. E gli spettacoli sono ben costruiti, perché il materiale è assolutamente vero e genuino: dramma, comicità, amori, politica, famiglia. Chiesa, lavoro. E Gli esulanti dell'8 settembre è una ricostruzione molto forte, non convenzionale dei mesi di “guerra civile” a Velo. Racconta Anderloni: «In tutti questi anni, intervistando gli anziani, mi sono accorto che i loro ricordi della Resistenza e dei partigiani erano pessimi. Qui i partigiani avevano lasciato una memoria peggiore dei tedeschi. Ho verificato, e in effetti la banda partigiana che s’era installata a Velo era stata sconfessata dal Cln, e alcuni di loro addirittura condannati a morte». Il loro comandante si chiamava Giuseppe Marozin, detto “Vero”, e venne amnistiato nel 1960.
I ricordi su quei giorni sono nettissimi, e sempre nuovi particolari si aggiungono: «Ancora l’altra sera una signora, dopo lo spettacolo, mi ha avvicinato. Lei, bambina, abitava nella casa dove i partigiani torturarono e uccisero una maestra di Tregnago». La signora si chiama Norina: «Mia mamma ci portò a dormire in un’altra stanza, perché noi bambini non sentissimo le urla. Andiamo di là, che fa più fresco, ci diceva». In paese, nei fienili e nei letamai, la gente di Velo nascondeva tutti quelli che avevano bisogno di aiuto: due soldati inglesi, ma anche uno tedesco che venne poi ucciso dai partigiani. Era un ragazzo sbandato, forse un disertore, il padre ex-ufficiale della Wermacht venne a riprendere il corpo a guerra finita. Si nascondevano poi i giovani renitenti ai bandi della Rsi, c’erano gli sfollati da Verona. Nascevano anche amori. Il sangue dei vinti e quello dei vincitori si mescolava, sulla scena pietosa di Velo.
Matteo Bonomi, 22 anni, che recita la parte del capo partigiano sanguinario, di mestiere fa il pavimentista. Come il suo amico Nicola Menegazzi, che fa “il renitente” Olindo. Hanno cominciato insieme nel coro dei bambini, 14 anni fa. Mauro Dalla Valentina, forestale, è Fachinato, il commissario prefettizio. Mariarosa Corradi, insegnante, è la bottegaia Ginepra. Nella Pozzerle, pensionata, è la nonna Celide: un’attrice fantastica, sembra non abbia fatto altro in vita sua. Elisa Anderloni, sorella di Alessandro, è la segretaria comunuale che dopo la Liberazione venne rapata e oltreggiata in piazza: partì per il Sudamerica e nessuno l’ha più vista. Così come sparì per sempre una ragazza violentata per due giorni dai parigiani. In scena c’è anche una ragazzina di 12 anni, Giulia Carpene, bravissima.
Alla fine, sono tutti preoccupati che «si capisse bene». Si finisce in piazza, una piazzetta che pare un campiello, a bere un bicchiere. Molta gente è rimasta fuori, e chiede nuove repliche. Gli attori se ne vanno a casa soddisfatti. La sola cosa che stona sono le mega-antenne sul monte dietro Velo: sono i ripetitori delle tv che nessuno, anche stasera, ha acceso.

La Repubblica - Venerdì 6 agosto 2004